Marlboro Soccer Cup: quando Marlboro giocava a calcio

Tra le innumerevoli sponsorizzazioni sportive, la ” Marlboro Soccer Cup” non era ancora entrata tra le mie conoscenze.
Abbiamo già avuto modo di scoprire come le Big Tobacco manipolassero, attraverso la propaganda, i mercati potenziali .
La sponsorizzazione dell’evento sportivo rientra in questa logica.
Gli autori di Minuto Settantotto con un pezzo che coniuga sport, marketing e storia politica ci raccontano una parte di questa storia. E lo fanno molto bene.
Non potevo fare a meno di importunarli per farmi concedere il piacere ( grazie ragazzi!) di condividere con voi le loro parole.

Buona lettura!

Una breve storia di soccer e nicotina

Tira! Goal!
Più che in un boato, il suono si amplifica in un sospiro quasi infinito. Lasciar andare, ora si può.
La bocca butta fuori tutto quello che ha. Il fumo sale dai bassifondi, una cortina di bianco denso scherma gli sguardi.
Qualche secondo di attesa, si ricomincia.
Un altro tiro e via.

Nel 1987 la “Philip Morris International” poteva vantare già quasi mezzo secolo di storia, risalendo al 1847 l’apertura del primo negozio intestato al tabaccaio londinese Philip Morris, in Bond Street.

Negozio poi diventato centro di produzione di sigarette proprie, nonché entrato nel nuovo secolo come una vera azienda capitalista (“Philip Morris & Co. Ltd., Inc.”), con nuovi proprietari e una nuova sede: gli Stati Uniti d’America.

Negli anni Cinquanta, quindi, lo sbarco su scala globale, prima in Australia e infine ovunque: Philip Morris era International.

Nel 1987 la Philip Morris era già all’avanguardia, da almeno un ventennio, per la pratica di sponsorizzare eventi culturali o grandi questioni umanitarie: produzioni teatrali, spettacoli di danza, rappresentazioni artistiche, programmi educativi, battaglie ambientaliste, lotta all’Aids e contro la fame nel mondo etc.

Un progetto di massa, però mirato, nel nome delle comunità e della diversità: essere molto presenti nelle aree in cui maggiori sono gli interessi economici, lì dove si produce a minor costo e dove le persone consumano di più.

marlboro cup2

Nel 1987 il primo pacchetto di Marlboro esiste da ben sessantatré anni. Il marchio era stato infatti lanciato ufficialmente nel 1924, aveva galleggiato nella mediocrità – o peggio – fino al secondo dopoguerra, ed era quindi esploso diventando, nel 1972, il pacchetto più venduto al mondo.

Merito, soprattutto, della narrazione che aveva portato a ideare Marlboro Man: il cowboy, la figura virile che nulla teme.

Via l’immagine delle sigarette surclassate negli anni ‘30 perché con filtro e quindi “da donna”!

Le Marlboro diventano le sigarette che fanno un po’ meno male – nel frattempo si è scoperto che il fumo, a maggior ragione le sigarette non filtrate, possono causare il cancro al polmone – ma stanno benissimo addosso ai duri, agli uomini tutti d’un pezzo.

Perché anche i duri hanno un po’ paura di morire.

Arriva la Marlboro Soccer Cup

Nel marzo 1987, quando allo stadio Orange Bowl prende il via la prima “Marlboro Soccer Cup”, l’iconico pacchetto bianco e rosso della Philip Morris – contenente circa 10 mg di catrame e 0.8 mg di nicotina – aveva già fatto il suo ingresso nel mondo dello sport da almeno venticinque anni su diverse monoposto di Formula 1, più di tutte la McLaren.

Sul sentiero della fine del vecchio millennio, la Philip Morris si considerava banalmente «la compagnia n.1 nel mondo nella sponsorizzazione di eventi sportivi».

Il calcio, però, è un’altra cosa.

Non è solo lo sport più potente e più visto del mondo: è una lingua universale, anche quando è giocato negli stadi largamente vuoti del soccer americano.

L’importante è che sia protagonista il target che si vuole raggiungere o proteggere.

Marketing di base. Le squadre invitate alla neonata Marlboro Soccer Cup, che aggrega club e selezioni nazionali, sono gli Stati Uniti padroni di casa, i brasiliani del San PaoloDeportivo Cali e Millonarios dalla Colombia. Vincono questi ultimi.

Quattro gare in tre giorni. Tutte disputate a Miami, finestra dell’Occidente ricco sul resto del mondo. Luogo che apre le porte all’altra America, quella Latina.

Non è un caso.

Agli albori degli anni Novanta, nella composizione demografica della città simbolo della Florida, si contano il 62,5% di ispanici e latino-americani, il 27,4% di afroamericani e “solo” il 12,2% di non ispanici di pelle bianca.

I Caraibi sono a un passo, e la lingua più parlata è lo spagnolo. Una lingua che le sigarette conoscono benissimo. Il perché lo spiega bene la voce tabagismo dell’Enciclopedia Medica Italiana (seconda edizione):

«Le stime condotte negli USA indicano una riduzione dei fumatori nel periodo 1965-1987 in ragione di 0,5 punti percentuali per anno. [..] Importanti differenze … nella presenza di fumatori fra le diverse classi sociali: essa è risultata più elevata fra i lavoratori manuali, fra coloro che avevano un più basso titolo di studio e che godevano di più modeste risorse economiche e, inoltre, fra gli individui di colore. [..] Alla riduzione dei consumi di tabacco nei Paesi occidentali … Si è così assistito a un netto aumento … nei Paesi dell’Africa e in quelli dell’America Latina … nel periodo 1970-1980».

Gli anni ‘80 e la totemizzazione del culto dell’individuo avevano spinto a una ridefinizione del concetto di “qualità della vita” per ciò che riguardava la salute.

Ovviamente, in esclusiva per una parte del mercato-mondo: è l’uomo occidentale che scopre infatti di poter ricorrere alla sanità non solo per curarsi ma anche per prevenire, perché può permettersi medici, specialisti e terapie.

Così, mentre una parte di popolazione adulta sperimenta le prime lotte per la disassuefazione dal tabacco, altre aree del globo diventano bersaglio privilegiato della propaganda e della politica economica delle grandi compagnie statunitensi del fumo, autorizzate da Washington a trasformare questi Paesi in «alleati poveri delle multinazionali».

In quel marzo 1987, al momento del calcio d’inizio della prima edizione della Marlboro Soccer Cup, la grande industria del fumo si era già mossa nell’esportazione del brand verso l’altra America grazie alla sfera di cuoio.

Nel 1982 la R. J. Reynolds Tobacco aveva infatti preso a utilizzare uno dei propri marchi, le sigarette Winston, per donare campi da gioco, palloni, trofei e divise ai vari tornei amatoriali organizzati nell’area di Los Angeles.

Sempre nella stessa contea della California erano stati organizzati tour promozionali con squadre dal Messico, dal Guatemala, dall’Honduras, oltre a una decina di sfide di preparazione ai Mondiali del 1986 giocate al Los Angeles Memorial Coliseum.

Infine, con l’altro marchio di punta del brand, erano nate le “Camel World Class Soccer Series” per usare professionisti e grandi club latino-americani come testimonial in vista dello spettacolo più atteso: la Fifa World Cup 1994.


Il gigante Philip Morris in questo caso aveva seguito la scia, ma il piano era chiaro perché i numeri parlavano chiaro: negli Usa il 5,2% dei fumatori, nonché il 6,6% di quelli che fumavano Marlboro, era composto da ispanici.

E le città a maggiore densità ispanica erano Miami, Chicago, Los Angeles e New York: quattro delle cinque sedi poi scelte (l’altra fu San Antonio, in Texas) per ospitare le tredici edizioni di Marlboro Cup disputate in tre anni. L

a lunga cavalcata di dollari verso Usa ‘94 era iniziata e avrebbe unito le più grandi imprese multinazionali (Coca-Cola, Budweiser, McDonald’s). L’obiettivo, però, non era il calcio: erano i soldi dei latinos.

1990 marlboro cup medal soccer

Alle ore 23:30 locali di quel 12 marzo 1987, verso il ventesimo minuto della gara che inaugura la breve storia della Marlboro Soccer Cup, il difensore argentino Carlos José Karabin vuole farsi notare e spara dai pressi del cerchio di centrocampo un siluro effettato che si spegne sotto l’incrocio della porta del San Paolo, aprendo così la vittoria dei Millonarios poi campioni del torneo davanti agli States.

Nessuno può dire con esattezza cosa stesse facendo in quel momento Eduardo Galeano e se per qualche astruso motivo possa essergli capitato di vedere in diretta il bolide di Karabin; ciò che conosciamo per certo, però, è che appena due anni prima era riuscito a riabbracciare la terra natia, l’Uruguay, dopo che la dittatura militare l’aveva costretto a ripiegare in Argentina e da lì poi in Spagna.

Lui, Galeano, una figura immensa della cultura, uno che le vene aperte dell’America Latina le aveva mostrate al mondo, aveva una sola altra grande passione, oltre a quella per il “suo” popolo: il pallone. «Come tutti gli uruguayani, avrei voluto essere un calciatore». Così, allo stesso modo, probabilmente ogni bambino nato dall’equatore in giù. Ogni sudamericano, ogni sfruttato.

La storia qui finisce com’è cominciata. Un tiro. Urlo strozzato in gola. Goal! Butti fuori quello che hai. Esulti. Poi un altro tiro.
Ecco, questa è la tua storia. La tua condanna. Un destino.

Giuliano Abate
Giuliano Abate

Esploro il futuro visitando il passato, nasco fotografo ma vivo d'altro. Odio i pregiudizi e ai titoli preferisco gli articoli di fondo. Scrivo e mi interesso di riduzione del danno e delle tematiche ad esse correlate.

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